Indagini

Il Post

Tutto quello che è successo dopo alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana. Una storia ogni mese, il primo del mese. Un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi. read less

Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Prima Parte
Apr 1 2023
Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Prima Parte
Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Seconda Parte
Apr 1 2023
Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Seconda Parte
Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Prima parte
Mar 1 2023
Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Prima parte
Il 21 febbraio 2001 una ragazza a piedi nudi, sporca di sangue, fermò un’auto che passava vicino a casa sua, nel quartiere Lodolino, a Novi Ligure. Disse che due persone, un giovane e uno più anziano, erano entrate in casa: avevano ucciso sua madre e suo fratello di 12 anni. Disse che erano stranieri, albanesi. Fece gli identikit, riconobbe anche una fotografia che i carabinieri le mostrarono: era quella di un ragazzo di origine albanese. I militari lo andarono a prendere ma lui aveva un alibi, venne rilasciato.Il procuratore capo di Alessandria, che entrò nella casa, dove erano avvenuti i due omicidi, si sentì male. Disse che non aveva mai visto nulla di simile. Intervistato dal telegiornale di Raiuno disse: «C’è gente feroce».Ci furono proteste e fiaccolate contro i migranti, molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali nei titoli parlarono di una banda di slavi. Poi, dopo due giorni, si scoprì che la verità era molto più banale e la ferocia molto più vicina.La ragazza che cercava aiuto sporca di sangue venne arrestata con l’accusa di aver ucciso la madre, Susy Cassini, e il fratello Gianluca. Con lei venne arrestato il suo fidanzato, Mauro Favaro, che tutti chiamavano Omar.La storia di ciò che accadde, del processo che seguì a quelli avvenimenti, di come la giustizia minorile si trovò ad affrontare un delitto feroce, “da adulti” commesso però da due poco più che bambini, è una di quelle che più hanno segnato la storia d’Italia degli ultimi vent’anni.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Seconda parte
Mar 1 2023
Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Seconda parte
Il 21 febbraio 2001 una ragazza a piedi nudi, sporca di sangue, fermò un’auto che passava vicino a casa sua, nel quartiere Lodolino, a Novi Ligure. Disse che due persone, un giovane e uno più anziano, erano entrate in casa: avevano ucciso sua madre e suo fratello di 12 anni. Disse che erano stranieri, albanesi. Fece gli identikit, riconobbe anche una fotografia che i carabinieri le mostrarono: era quella di un ragazzo di origine albanese. I militari lo andarono a prendere ma lui aveva un alibi, venne rilasciato.Il procuratore capo di Alessandria, che entrò nella casa, dove erano avvenuti i due omicidi, si sentì male. Disse che non aveva mai visto nulla di simile. Intervistato dal telegiornale di Raiuno disse: «C’è gente feroce».Ci furono proteste e fiaccolate contro i migranti, molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali nei titoli parlarono di una banda di slavi. Poi, dopo due giorni, si scoprì che la verità era molto più banale e la ferocia molto più vicina.La ragazza che cercava aiuto sporca di sangue venne arrestata con l’accusa di aver ucciso la madre, Susy Cassini, e il fratello Gianluca. Con lei venne arrestato il suo fidanzato, Mauro Favaro, che tutti chiamavano Omar.La storia di ciò che accadde, del processo che seguì a quelli avvenimenti, di come la giustizia minorile si trovò ad affrontare un delitto feroce, “da adulti” commesso però da due poco più che bambini, è una di quelle che più hanno segnato la storia d’Italia degli ultimi vent’anni.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Parma, 4 agosto 1989 - Prima Parte
Jan 1 2023
Parma, 4 agosto 1989 - Prima Parte
Un camper, marca Ford, con sei posti letto, bianco con strisce beige. Partì da Parma il 4 agosto 1989, destinazione Spagna, o forse Nordafrica. Comunque, vacanze. Era di proprietà di una famiglia composta da quattro persone: la famiglia Carretta.A inizio settembre quel camper non era ancora tornato. Giuseppe Carretta avrebbe dovuto riprendere il lavoro nell’azienda di cui era il contabile ma non si era fatto vivo, nemmeno una telefonata. Eppure, dissero i suoi colleghi, avvertiva anche se tardava pochi minuti. Con lui era sparita la moglie, Marta Chezzi. Neppure dei due figli, Nicola e Ferdinando, si sapeva più nulla.Iniziò la caccia al camper: per settimane arrivarono segnalazioni da tutta Italia, ma anche dall’estero. Alla fine venne ritrovato, parcheggiato in una strada di Milano. Degli occupanti non c’era nessuna traccia.Iniziò a diffondersi la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti alla sua azienda: fondi neri, e quindi non denunciati. Si disse che l’intera famiglia si fosse trasferita ai Caraibi a godersi i soldi. Che fossero tutti lontani e felici.Per quasi dieci anni i Carretta vennero segnalati in varie parti del mondo. Investigatori e giornalisti partivano alla ricerca ma ogni pista alla fine si rivelava falsa, o inconsistente.Fino a che un poliziotto inglese fermò un ragazzo che in moto, a Londra, stava facendo zig zag tra le auto…Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Parma, 4 agosto 1989 - Seconda Parte
Jan 1 2023
Parma, 4 agosto 1989 - Seconda Parte
Un camper, marca Ford, con sei posti letto, bianco con strisce beige. Partì da Parma il 4 agosto 1989, destinazione Spagna, o forse Nordafrica. Comunque, vacanze. Era di proprietà di una famiglia composta da quattro persone: la famiglia Carretta.A inizio settembre quel camper non era ancora tornato. Giuseppe Carretta avrebbe dovuto riprendere il lavoro nell’azienda di cui era il contabile ma non si era fatto vivo, nemmeno una telefonata. Eppure, dissero i suoi colleghi, avvertiva anche se tardava pochi minuti. Con lui era sparita la moglie, Marta Chezzi. Neppure dei due figli, Nicola e Ferdinando, si sapeva più nulla.Iniziò la caccia al camper: per settimane arrivarono segnalazioni da tutta Italia, ma anche dall’estero. Alla fine venne ritrovato, parcheggiato in una strada di Milano. Degli occupanti non c’era nessuna traccia.Iniziò a diffondersi la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti alla sua azienda: fondi neri, e quindi non denunciati. Si disse che l’intera famiglia si fosse trasferita ai Caraibi a godersi i soldi. Che fossero tutti lontani e felici.Per quasi dieci anni i Carretta vennero segnalati in varie parti del mondo. Investigatori e giornalisti partivano alla ricerca ma ogni pista alla fine si rivelava falsa, o inconsistente.Fino a che un poliziotto inglese fermò un ragazzo che in moto, a Londra, stava facendo zig zag tra le auto…Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Prima parte
Dec 1 2022
Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Prima parte
Il 26 novembre 2010, a Brembate di Sopra, a poco più di dieci chilometri da Bergamo, scomparve una ragazza di 13 anni. Si chiamava Yara Gambirasio. Era uscita di casa per andare al centro sportivo dove si allenava abitualmente: faceva parte della squadra locale di ginnastica ritmica. Quel pomeriggio era andata in palestra per consegnare alle istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara, due giorni dopo. La ragazza entrò in palestra, si fermò meno di un’ora, poi venne vista uscire. Da quel momento, di lei, per tre mesi, non si seppe più nulla.Il corpo fu ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da Brembate. Yara Gambirasio era stata colpita con un’arma da taglio, un coltello o un taglierino. Non morì però per le ferite: morì di freddo, in quel campo, stordita e debilitata, incapace di muoversi.Sui suoi vestiti furono trovate tracce biologiche. Iniziò così un’indagine scientifica senza precedenti in Italia. Vennero raccolti oltre ventimila campioni di DNA tra gli abitanti della zona. Fu individuato un ragazzo, poi un nucleo familiare e infine un uomo, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo secondo le analisi del DNA più volte era il padre dell’assassino. Nessun profilo genetico dei suoi figli era però quello trovato sui vestiti di Yara Gambirasio. L’indagine scientifica si trasformò così in una ricerca, paese per paese, del figlio mai riconosciuto di quell’uomo. La ricerca si concluse nel giugno del 2014 con l’arresto di un uomo di 44 anni.Nel corso delle anni ci furono polemiche, errori, ma anche intuizioni. E intorno a quella indagini scientifica, a quei campioni di DNA, si aprì una disputa tra procura di Bergamo e la difesa dell’imputato che ancora non si è conclusa.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Seconda parte
Dec 1 2022
Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Seconda parte
Il 26 novembre 2010, a Brembate di Sopra, a poco più di dieci chilometri da Bergamo, scomparve una ragazza di 13 anni. Si chiamava Yara Gambirasio. Era uscita di casa per andare al centro sportivo dove si allenava abitualmente: faceva parte della squadra locale di ginnastica ritmica. Quel pomeriggio era andata in palestra per consegnare alle istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara, due giorni dopo. La ragazza entrò in palestra, si fermò meno di un’ora, poi venne vista uscire. Da quel momento, di lei, per tre mesi, non si seppe più nulla.Il corpo fu ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da Brembate. Yara Gambirasio era stata colpita con un’arma da taglio, un coltello o un taglierino. Non morì però per le ferite: morì di freddo, in quel campo, stordita e debilitata, incapace di muoversi.Sui suoi vestiti furono trovate tracce biologiche. Iniziò così un’indagine scientifica senza precedenti in Italia. Vennero raccolti oltre ventimila campioni di DNA tra gli abitanti della zona. Fu individuato un ragazzo, poi un nucleo familiare e infine un uomo, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo secondo le analisi del DNA più volte era il padre dell’assassino. Nessun profilo genetico dei suoi figli era però quello trovato sui vestiti di Yara Gambirasio. L’indagine scientifica si trasformò così in una ricerca, paese per paese, del figlio mai riconosciuto di quell’uomo. La ricerca si concluse nel giugno del 2014 con l’arresto di un uomo di 44 anni.Nel corso delle anni ci furono polemiche, errori, ma anche intuizioni. E intorno a quella indagini scientifica, a quei campioni di DNA, si aprì una disputa tra procura di Bergamo e la difesa dell’imputato che ancora non si è conclusa.Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Ladispoli, 17 maggio 2015 – Prima parte
Nov 1 2022
Ladispoli, 17 maggio 2015 – Prima parte
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 2015 un ragazzo di vent’anni, Marco Vannini, fu raggiunto da un colpo di pistola mentre era a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli, in provincia di Roma. Il proiettile trapassò il braccio destro, entrò nell’emitorace, attraversò il polmone destro, poi quello sinistro e si fermò nel pericardio, la membrana che circonda il cuore. La famiglia Ciontoli chiamò il 118 oltre mezz’ora dopo lo sparo annullando però, nella stessa telefonata, la richiesta di intervento. Il 118 venne chiamato di nuovo molti minuti più tardi. Furono due telefonate surreali, in cui i Ciontoli dissero molte bugie cercando di mascherare ciò che era realmente accadutoMarco Vannini morì quattro ore dopo essere stato ferito. Le perizie stabilirono che, se fosse stato soccorso tempestivamente, si sarebbe potuto salvare: nel suo torace fu trovata una quantità di sangue tra il litro e mezzo e i due litri. Morì lentamente, dissanguato dall’emorragia.Le indagini e i processi cercarono di ricostruire ciò che avvenne a Ladispoli, nella casa della famiglia Ciontoli, la notte in cui Marco Vannini venne colpito dal proiettile sparato da una pistola marca Beretta calibro nove. Tutto si basava sulle dichiarazioni della famiglia Ciontoli, sulle contraddizioni, le evidenti menzogne. Soprattutto il processo cercò di chiarire cosa avvenne nei minuti, nelle ore e poi nei giorni successivi quando un intero nucleo familiare raccontò che Marco era caduto dalle scale, quindi che aveva avuto un attacco di panico perché dalla pistola era uscito un colpo d’aria, poi che si era ferito con un pettine e infine che una pistola aveva sparato ma il colpo era partito praticamente da solo. E che Marco Vannini era stato ferito solo di striscio. Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Ladispoli, 17 maggio 2015 – Seconda parte
Nov 1 2022
Ladispoli, 17 maggio 2015 – Seconda parte
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 2015 un ragazzo di vent’anni, Marco Vannini, fu raggiunto da un colpo di pistola mentre era a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli, in provincia di Roma. Il proiettile trapassò il braccio destro, entrò nell’emitorace, attraversò il polmone destro, poi quello sinistro e si fermò nel pericardio, la membrana che circonda il cuore. La famiglia Ciontoli chiamò il 118 oltre mezz’ora dopo lo sparo annullando però, nella stessa telefonata, la richiesta di intervento. Il 118 venne chiamato di nuovo molti minuti più tardi. Furono due telefonate surreali, in cui i Ciontoli dissero molte bugie cercando di mascherare ciò che era realmente accadutoMarco Vannini morì quattro ore dopo essere stato ferito. Le perizie stabilirono che, se fosse stato soccorso tempestivamente, si sarebbe potuto salvare: nel suo torace fu trovata una quantità di sangue tra il litro e mezzo e i due litri. Morì lentamente, dissanguato dall’emorragia.Le indagini e i processi cercarono di ricostruire ciò che avvenne a Ladispoli, nella casa della famiglia Ciontoli, la notte in cui Marco Vannini venne colpito dal proiettile sparato da una pistola marca Beretta calibro nove. Tutto si basava sulle dichiarazioni della famiglia Ciontoli, sulle contraddizioni, le evidenti menzogne. Soprattutto il processo cercò di chiarire cosa avvenne nei minuti, nelle ore e poi nei giorni successivi quando un intero nucleo familiare raccontò che Marco era caduto dalle scale, quindi che aveva avuto un attacco di panico perché dalla pistola era uscito un colpo d’aria, poi che si era ferito con un pettine e infine che una pistola aveva sparato ma il colpo era partito praticamente da solo. E che Marco Vannini era stato ferito solo di striscio. Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Lombardia, 1998-2004 – Prima parte
Aug 1 2022
Lombardia, 1998-2004 – Prima parte
Nel racconto di delitti e casi di cronaca nera, spesso sono i media a dare nomi e nomignoli ai protagonisti delle vicende: l’espressione “Bestie di Satana”, invece, se la diedero i protagonisti stessi. Un gruppo di ragazzi della provincia di Varese che negli anni Novanta prese a frequentarsi tra la fiera di Senigallia, un pub a Milano famoso per la musica metal, i boschi di Somma Lombardo, e che fu considerato responsabile di almeno tre omicidi e un suicidio indotto tra il 1998 e il 2004. È una vicenda che oscilla tra l’inquietante e il grottesco, prima di diventare tragica. All’inizio prevale il grottesco: le camerette da ragazzini pitturate tutte di nero, le teste di caprone in plastica, gli scambi di gocce di sangue, le frasi lette al contrario, le prove di resistenza al dolore con le sigarette spente sulle braccia, i nomi di battaglia, i riti in cui veniva evocato un improbabile essere demoniaco. C’erano anche sostanze stupefacenti, moltissime, usate fino al punto di perdere lucidità e consapevolezza delle proprie azioni: ed è lì che la storia da grottesca diventa prima inquietante e poi tragica, portando a omicidi, torture e suicidi: «Delitti feroci senza alcun senso», dice Stefano Nazzi. «Erano dieci-quindici. Qualcuno era un capo, qualcuno un gregario e qualcuno è scappato in fretta. Hanno fatto del male per il gusto di fare del male».Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Lombardia, 1998-2004 – Seconda parte
Aug 1 2022
Lombardia, 1998-2004 – Seconda parte
Nel racconto di delitti e casi di cronaca nera, spesso sono i media a dare nomi e nomignoli ai protagonisti delle vicende: l’espressione “Bestie di Satana”, invece, se la diedero i protagonisti stessi. Un gruppo di ragazzi della provincia di Varese che negli anni Novanta prese a frequentarsi tra la fiera di Senigallia, un pub a Milano famoso per la musica metal, i boschi di Somma Lombardo, e che fu considerato responsabile di almeno tre omicidi e un suicidio indotto tra il 1998 e il 2004. È una vicenda che oscilla tra l’inquietante e il grottesco, prima di diventare tragica. All’inizio prevale il grottesco: le camerette da ragazzini pitturate tutte di nero, le teste di caprone in plastica, gli scambi di gocce di sangue, le frasi lette al contrario, le prove di resistenza al dolore con le sigarette spente sulle braccia, i nomi di battaglia, i riti in cui veniva evocato un improbabile essere demoniaco. C’erano anche sostanze stupefacenti, moltissime, usate fino al punto di perdere lucidità e consapevolezza delle proprie azioni: ed è lì che la storia da grottesca diventa prima inquietante e poi tragica, portando a omicidi, torture e suicidi: «Delitti feroci senza alcun senso», dice Stefano Nazzi. «Erano dieci-quindici. Qualcuno era un capo, qualcuno un gregario e qualcuno è scappato in fretta. Hanno fatto del male per il gusto di fare del male».Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.